Interessante ordinanza della Cassazione, la n. 5086/2022, in materia di cessazione della convivenza more uxorio, con espresso riferimento all’ambito di disciplina dell’art. 936 c.c.
I giudici di legittimità escludono l’applicabilità della regola prevista in materia di accessione (art. 936 c.c.), secondo cui il proprietario del suolo può decidere di mantenere l’opera realizzata corrispondendo un’indennità all’autore.
Il convivente, infatti, non può considerarsi “terzo”.
Terzo, infatti, è colui che non ha con il proprietario del suolo alcun rapporto giuridico, reale o personale; qualora invece le opere siano state realizzate dal convivente che abbia impiegato denaro e tempo libero per la costruzione dell’abitazione comune e non a vantaggio esclusivo del partner, l’ex compagno può agire in giudizio esperendo l’azione di arricchimento senza causa avendo «diritto a recuperare il denaro che ha versato e ad essere indennizzato per le energie lavorative impiegate volontariamente, per quella determinata finalità, in applicazione e nei limiti del principio dell’indebito arricchimento».
La ratio dell’art. 2042 c.c. è quella di evitare che il depauperato possa a sua volta divenire autore di arricchimento ingiusto.
I principi da applicare sono stati già compiutamente espressi dalla giurisprudenza, che, da un lato ricostruisce sistematicamente tutte le ipotesi in cui non si possa legittimamente richiamare la mancanza di causa del conferimento, a fondamento dell’azione di arricchimento, dall’altro fa applicazione degli indicati principi proprio in relazione ad un disciolto rapporto di convivenza more uxorio: “l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l’ingiustizia della causa qualora l’arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di un’ obbligazione naturale. E’, pertanto, possibile configurare l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente “more uxorio” nei confronti dell’altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza”. (Cass. 11330/2009).
Nel caso di specie, il conferimento di denaro e del proprio tempo impiegato per la costruzione della casa, che è stata la dimora comune, è stato senz’altro volontario, posto che le parti vi hanno coabitato per alcuni anni.
Nel momento in cui si è sciolto il rapporto sentimentale ed è stato accantonato il progetto stesso di vita in comune, al convivente non potrà essere riconosciuta la comproprietà del bene, ma egli avrà diritto a recuperare il denaro che ha versato e ad essere indennizzato per le energie lavorative impiegate.
Qualora le prestazioni siano state spontaneamente erogate non in favore esclusivo del partner ma in vista della realizzazione di un progetto comune, occorre poi verificare se all’applicabilità delle norme sull’ingiustificato arricchimento osti la disciplina delle obbligazioni naturali, considerata l’entità degli esborsi e dei conferimenti.
Le prestazioni patrimoniali di uno dei conviventi “more uxorio” possono inquadrarsi nello schema dell’obbligazione naturale solo se hanno come effetto esclusivo l’arricchimento del partner e sussiste un rapporto di proporzionalità tra le somme sborsate e i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai conviventi (Cassazione civile sez. II, 13/03/2003, n. 3713).
Alla stregua di tale percorso argomentativo la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello in diversa composizione che dovrà attenersi al seguente principio di diritto: «L’art. 936 c.c. trova applicazione soltanto quando l’autore delle opere sia realmente terzo, ossia non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico di natura reale o personale che gli attribuisca la facoltà di costruire sul suolo. La norma non si applica nell’ipotesi in cui le opere siano state realizzate dal convivente o da chi sia legato ad una relazione sentimentale con il proprietario del suolo ed abbia impiegato denaro e tempo libero per la costruzione dell’abitazione comune e non a vantaggio esclusivo del convivente».